Strabismi 9

numero dedicato all'opera Sugar Tower, 1981, Jirí Kovanda


In questo numero contributi di: Cesare Biratoni, Giuseppe Buffoli, Giulio Ciavoliello, Luca Scarabelli, Marta Orsola Sironi, Susanna Baumgartner, Ermanno Cristini.


Poetica inutilità

di CESARE BIRATONI

 

Come avrebbe commentato l’opera Sugar Tower di Kovanda lo scrittore svizzero Robert Walser, trovandosela davanti in una delle sue celebri passeggiate? Come non farsi tentare, avrebbe pensato, dall’associare il materiale della piccola installazione alla frase fatta “il dolce far niente”, prerogativa indispensabile e motivazione necessaria per avviare una qualsivoglia deambulazione fine a se stessa? Ne avrebbe sicuramente apprezzato il carattere precario, la fragile durata e la consistenza friabile; la poetica inutilità. Ma allo stesso tempo avrebbe messo in evidenza una certa eleganza nella struttura, una solidità che rimanda più alle intenzioni che al risultato in sé; come se l’opera si qualificasse più per quello che potrebbe essere (in potenza) che per quello che effettivamente è…come un riverbero di qualcosa, un eco, un desiderio.

 Ma se la fragilità e la delicatezza sono sicuramente i tratti distintivi di tale struttura si percepisce nell’opera anche un’intenzione più solida, una serietà che, nel suo disporsi in verticale, rimanda a una certa serialità (anche qui… in potenza); la torretta di zucchero tradisce, forse, un bisogno di precisione, di insistenza programmatica: gli elementi cristallini e minerali della sua struttura microscopica rimandano, con la loro solida trasparenza, alla fragile bellezza delle intenzioni.


Atto di fede

di GIUSEPPE BUFFOLI

 

Il dizionario Treccani definisce “Torre” come: “Costruzione a sviluppo verticale più o meno accentuato, con pianta poligonale o circolare isolata o inserita, anche in serie…”

Da bambino ero molto affascinato dalle zollette di zucchero, oggetti per me quasi magici. Com’era possibile che una forma così precisa potesse essere realizzata con qualcosa che, nella mia mente di bimbo, ritenevo quasi liquida?... Infatti avevo sempre visto lo zucchero ondeggiare nella zuccheriera di vetro. Se poi consideriamo che questi magici oggetti venivano regalati da una prozia materna, la quale custodiva un tesoro di caramelle in un forziere-dispensa, raggiungibile solo attraverso peripezie in pattine su un pavimento cerato… beh, non posso che essere affascinato da una torre di zucchero!!! Questo semplice lavoro (nell’accezione brancusiana del termine), rientra nella categoria di opere che io definisco come “atto di fede”: o ci credi e riesci a trovare qualcosa di più grande anche in un piccolo e semplice gesto, andando oltre alla questione fisica, oppure ti lasci andare alla citazione della fantozziana critica alla Corazzata Potëmkin.

In questo caso poi, grazie alla sua connotazione spaziale, un muro scuro cadenzato e ritmato da mattoni orizzontali e verticali, lo zucchero bianchissimo riluce e sorprende, come una delle molte edicole votive che spesso, ci appaiono nelle nostre campagne.

Come dicevo, un atto di fede: non puoi far altro che fermarti e contemplare… e chiederti: “io ci credo?... Sì io ci Credo!”

Oppure puoi semplicemente domandarti cosa avrà pensato una formica, imbattendosi in questa effimera costruzione, immenso tesoro in equilibrio precario… Magari si sarà sentita come noi spettatori all’Hangar Bicocca, schiacciati dai Palazzi Celesti?

 


Umwelt Kovanda

di LUCA SCARABELLI

 

Per compiere un percorso senza inciampare occorre buttare giù l’occhio, seguire i passi, muoversi in anticipo, avere una direzione in cui andare. A volte l’inciampo arriva comunque e può essere positivo. Si inciampa e ci si scontra con Jirí Kovanda ad esempio, perché cercava proprio il contatto, l’incidente, lo scontro, così come cercava di modellare il tuo tempo, aspettando, nascondendosi, saltando appuntamenti per mostrarti la schiena. 

Ci sono delle fotografie che documentano alcuni aspetti pregnanti del suo lavoro, che lo vedono attore di variazioni sul tema della prossimità, sull’uso dello spazio privato e pubblico, sulla distanza sociale e sulla vicinanza, sullo sfioramento dei corpi e sull’esitare. Un lavoro quasi da attore antropologo il suo, con performance in cui “studiava” lo spazio delle relazioni attraverso microazioni, che erano transazioni, dialoghi con il suo “umwelt”, il mondo circostante – il suo terreno di gioco? – , esperimenti di rapporti con ciò che lo “toccava”, con gesti, posture, sguardi, corpo che scopre corpi. Una sintassi formale la sua, declinata in pochi movimenti; braccia aperte, una corsa per sparire all’orizzonte, il corpo nascosto. Un bacio.

In mezzo, una piccola torre di zollette di zucchero, che si mostra per quello che è, zucchero impilato. Camminando di fianco a questa piccola costruzione, collocata a terra, non ti saresti nemmeno accorto della sua presenza. Una cosa curiosa quella appena scorta, magari buttando lì l’occhio un paio di volte per capire meglio, per vedere meglio. Uno sguardo di sbieco che gioca sul confine della riconoscibilità della cosa, sulla probabilità di (intra)vederla e di gettargli lì per caso un’occhiata indifferente. Un momento brevissimo, lo sguardo che sfiora le cose, ci si appoggia e un attimo dopo è già altrove, per poi riemergere nel ricordo legato a quella strana presenza, una circostanza inaspettata, inusuale, perché ordinata, impilata, innaturale. Un’immagine non-artistica per uno sguardo non devoto. La vita al di là dell’illusione mette in moto un regime scopico particolare per discriminare in un attimo il visto. C’è un momento, un atto del visivo quasi, che testimonia e anima, quasi manipola l’attenzione. C’è uno spostamento dell’attenzione. L’incanto figurato di uno sguardo consapevole.

Un segno da decifrare quindi? Da smascherare? Un dubbio? Con questo lavoro non siamo nel territorio della conflittualità e dei suoi “incidenti”, casomai in quello di un paesaggio marginale, nel dettaglio, nel minimo dell’architettura del microcosmo. 

Un lavoro che sfiora il rapporto con lo spazio pubblico, che richiede fortuna per essere inquadrato in un attimo con uno sguardo plongée. Molte sue opere sono particelle che occupano discretamente lo spazio, fluttuano come pensieri e vanno colte al volo. C’è della classicità dietro questa piccolezza – magari anche la linguaccia verso le esperienze minimal, quelle del contegno della forma che si fa spazio contenente lo spazio (ad esempio potrebbe essere un sopito richiamo a Lever, opera del 1966 di Carl Andre? Una fila di 137 mattoni collocati sul pavimento, ma forse è solo una speculazione dettata dalla configurazione formale e a Kovanda non fregava nulla di Lever). L’esperienza artistica di Kovanda qui è sfumata, quotidiana, al limite del superfluo, effimera e fragile. Ma quanta bellezza e poesia c’è in questa piccola torre di cubetti di zucchero. Una scultura di zucchero?

Kovanda costruisce così una immagine in perdita, mi piace pensare al suo lavoro come alla manifestazione del regno dell’incertezza… come i suoi gesti minimi e azioni comuni, al limite del banale, giusto con il necessario, qui sul terreno, in basso, il cui motivo è la messa in possibilità o probabilità di essere scultura, una scultura breve, senza presentazione, senza palcoscenico, a meno di non considerare come parte del tutto il paesaggio della città sullo sfondo, una scultura o un’opera, quasi irriconoscibile come opera, che non è arredo urbano o public art, ma che appunto nella sua sommessa antispettacolarità e antimonumentalità, si dimostra completamente sincera e vera. E dopo qualche passo, mentre ci si allontana, ci si volta per guardarsi alle spalle per vedere se c’è ancora.


Un'attitudine da performer

di GIULIO CIAVOLIELLO

 

Sugar tower (1978) appartiene a un periodo in cui Jirí Kovanda aveva smesso di fare performance (che riprenderà a fare dopo una lunga pausa, con il nuovo Millennio) per dedicarsi a installazioni, il cui carattere era deliberatamente effimero. Da parte dell’artista, collocare forme nello spazio è come un modo per conservare un’attitudine da performer, che è impegnato in un’azione solitamente agita in prima persona.

Più che trovarci nell’ambito del site specific, con opere come quella in questione Kovanda continua a determinare situazioni time specific, in cui comunque si palesa una temporalità. Era passato da comportamenti minimi, semplici, alla collocazione nello spazio di materie e oggetti elementari, organici, fortemente soggetti all’ambiente, quasi in osmosi con esso. Le zollette di zucchero che costituiscono l’opera sono fortemente condizionate dalle condizioni ambientali. Possono deteriorarsi lentamente, svanire, se per esempio vengono individuate da una comunità di formiche, oppure velocemente, sciogliersi, se investite dalla pioggia. E in questo caso mi viene in mente Marcel Broodthaers che scrive sotto la pioggia (1969). 


Fai con clama e abbi fiducia nel frattempo prenditi cura di te

di MARTA ORSOLA SIRONI

 

Ermanno Cristini ha impiegato sei anni a leggere À la recherche du temps perdu di Proust. Quando ha iniziato il libro ha dato un appuntamento a se stesso: “Fai con calma e abbi fiducia, ci vediamo alla fine. Nel frattempo prenditi cura di te". 

Me l’ha raccontato una sera di fine estate in risposta al mio timore di essere rimasta indietro rispetto a chissà quale scadenza importante della vita. Con la sua pacata tranquillità mi ha spiegato che solo se si impara a darsi il tempo di cui si ha bisogno, di tempo ve ne è a sufficienza per tutto. Con Sugar Tower Jirí Kovanda erige un monumento dedicato agli altri uomini come lui: nove zollette di zucchero impilate l’una sopra l’altra contro il muricciolo di un parco. La fotografia che documenta l’installazione non dice se sia stato il vento, la corsa di un cane o l’azione della pioggia a farla crollare, ne attesta solo la precaria esistenza e l’implicita caducità. 

Kovanda è un poeta della normalità. I suoi sono gesti minimi, come scambiarsi un primo bacio o voltarsi indietro nella frenesia di una metropolitana per guardare negli occhi uno sconosciuto compagno di strada. Oppure ancora, prendersi il tempo e la briga di edificare una torre di zucchero destinata a una subitanea fine. Sono azioni “sottostimate”, come le ha definite qualcuno, che hanno però la potenza della Rivoluzione. L’artista, infatti, è perfettamente consapevole che nel mondo contemporaneo la sfida quotidiana degli individui non è corrispondere alle scadenze e ai parametri della società, ma costruirsi una dimensione personale e autentica per la propria sfera intima. Imparare a non temere il tempo è un esercizio costante: ci vuole tempo per impararlo. Oggi Ermanno mi ha scritto che il ritardo è l’unico modo per apprezzare il tempo. Come sempre devo dargli ragione. Esco a costruire castelli di zucchero per le strade di Milano. 


Coup de foudre

di SUSANNA BAUMGARTNER

 

Il muro ha una visuale ampia e scende vertiginosamente verso il basso per abbracciare il più possibile l’orizzonte. Nasconde e svela un orizzonte anche verticale, una torre di zollette di zucchero che sorprende e rivela.

Questa torre non desidera false altezze, ma la certezza della semplicità di un gesto che riempie lo spazio.

La piccola Sugar Tower appoggiata ai piedi di un muro del quartiere di Vysehrad è un monumento fragile e traballante che non vuole rassicurare della sua presenza, ma sottolineare che tutto può essere effimero, scomparire in un attimo sciogliendosi grazie alla pioggia, non essere visto e riconosciuto. Il tempo di una folgorazione è un’apparizione che non scompare, anche grazie a un’immagine che testimonia il suo passaggio, il suo essere per un attimo in relazione con un muro. Quell’atmosfera che un luogo ci regala, passa attraverso il nostro sguardo che coglierà l’insieme e nello stesso tempo un “particolare”, un oggetto che acquista una forza di espansione. Se fotografo, desidero testimoniare quell’attimo, lasciare un ricordo da condividere. Il dialogo fra il muro e la torre di zollette diventa un dialogo a tre. Il muro indica” un di qua” e “un di là”, protegge e separa, crea un altro spazio al confine di un’altra dimensione. In un attimo mi convinco della bellezza del silenzio che questa immagine contiene.

Alla memoria giunge Why Not Sneeze Rose Sélavy? Un’opera che genera una relazione con un’altra opera. Sugar Tower gioca con Why Not Sneeze Rose Sélavy? Un’opera genera una relazione con un’altra opera che a sua volta mette in relazione diversi elementi. Un cortocircuito di immagini e rimandi, di forme e pesi, di possibili letture. Tutto si muove pur restando ancorato a un luogo e a un momento. Tra zolletta e zolletta si insinua il pensiero di una visione, il desiderio di un’immagine che in realtà rimanda all’infinito al suo essere una presenza che annuncia un’assenza. Un’“eco estetica” che presuppone un “coup de foudre”, una rivelazione. C’è il desiderio di inchinarsi verso quella torre di zollette, per vederla in tutto il suo splendore abbagliante che accieca lo sguardo e risveglia l’ascolto. Quel prezioso gesto, diventato “una torre di zucchero,” mi chiede di avvicinarmi, di aprirmi a un’altra vista, cercando un altro orizzonte. Amo le opere che costringono ad abbassarsi, a muoversi verso l’oggetto che ci incuriosisce e ci cattura. Quello che è a portata di sguardo non richiede un giusto sforzo di ridimensionamento del nostro sguardo, sempre più abituato a sorvolare senza realmente vedere o voler vedere. Un’apparizione crea meraviglia e sorpresa, lascia una traccia, richiama alla memoria altre apparizioni. 

Un gesto voluto può diventare volutamente apparizione? La ricchezza che sprigiona questa torre di zucchero si espande concentrando l’attenzione. La torre è l’elemento visibile della presenza umana e del suo bisogno di apparire. Una torre vuole in effetti apparire, eccellere in altezza, dimostrare forza e presenza. Spesso la torre è la prima a crollare. La torre di Babele confonde le lingue e costringe a disperdersi. Le contraddizioni si moltiplicano come le domande, rivelando che solo guardando contemporaneamente opposti che si toccano sappiamo, almeno per un attimo, sapere di essere per non essere.


Costruire la polvere

di ERMANNO CRISTINI

 

Sugar Tower è eretta su un’aporia: costruire la polvere. La costruzione implica un procedimento di tipo additivo, la polvere di tipo sottrattivo, dunque: costruire decostruendo. 

Inoltre all’aperto lo zucchero si scioglie e scatta una seconda dicotomia, quella di una solidità liquida: “countable” vs “uncountable”, direbbero gli inglesi. Un monumento alla vacuità, pronto a rivelare nella precarietà della sua apparenza quasi invisibile, marginale, non ostentata, la disponibilità a cadere da un momento all’altro, e forse anche per azione dello “sneeze” di Rose Selavy, così da tendere una linea ideale entro il rotolarsi delle idee nel tempo.

“Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”, si ripeteva Samuel Beckett (Compagnia e Worstward Ho) mentre il suo amico Giacometti trovava nella polvere della scultura l’esito delle sue notti di lavoro. La polvere era l’essenza; quello che era necessario, ne più ne meno. La polvere di Giacometti era il prodotto di una battaglia che recava in sé l’eroismo del gesto, la stoicità del sacrificio, una frontalità squisitamente moderna. Sugar Tower invece, con la sua “leggerezza” priva il fallimento della dimensione eroica e lo restituisce alla fragilità di un’umanità che trova la sua forza in una sorta di discrezione esitante, alimentata di incertezza. Lateralità piuttosto che frontalità. La torre di Kovanda è quasi un’inezia; sembra di vedere le dita che depongono timidamente le zollette l’una sull’altra, “sottovoce”, con una cura fin negligente e nella consapevolezza del fatto che non ne resterà nulla. Non c’è bisogno che qualcuno se ne accorga, eppure la necessità del gesto sta proprio nella sua evidente inutilità. Sorge allora una domanda: è la torre di zucchero ad appoggiarsi al muro o è il muro a sostenersi grazie all’esilità della torre? Da Sugar Tower ci separano circa quarant’anni, la distanza giusta per rendere l’interrogativo quanto mai contemporaneo.