STRABISMI 8

Numero dedicato alla 58ª Biennale d'Arte di Venezia


In questo numero contributi di: Ermanno Cristini, Aurelio Andrighetto, Davide Dal Sasso, Hannes Hegger, Joykix, Mariateresa Sartori, Giancarlo Norese, Giovanni Termini, Luca Scarabelli, Bianca Trevisan.


 

INDISPOSIZIONI E ATTIVITA' CRITICA DELL'ARTISTA INTELLETTUALE

Alex Da Corte, rubber Pencil Devil

di AURELIO ANDRIGHETTO

 

In Intellettuali italiani del XX secolo, Eugenio Garin sostiene che la tendenza a unificare azione intellettuale e attività politica, ereditata da Benedetto Croce, è tipica della cultura italiana. Di conseguenza associamo la fine del ruolo critico svolto dall’intellettuale a un venir meno dell’impegno politico. In L’architetto come intellettuale, Marco Biraghi porta l’attenzione sulla trasformazione radicale dell’architetto, inteso come intellettuale, che proprio per sopravvivere come tale rinuncia a “ogni possibilità di connotare politicamente e socialmente il suo agire, ponendosi al centro di un universo di discorso interamente autoriferito”. A questo riguardo, l’autore cita le concettualizzazioni e le astrazioni di Peter Eisenman che contrappone alle analisi di Rem Koolhaas che “provengono direttamente dalla realtà”. In effetti, leggendo Eisenman (Inside Out, Quodlibet, Macerata 2014) sembrerebbe proprio così. L’analisi di Biraghi porta l’attenzione sulla necessità di produrre mutamenti nel mondo che ci circonda attraverso una condivisione e una collaborazione che restituiscano alla collettività gli strumenti necessari alla trasformazione dei processi produttivi, cosa che implica un’attività di mediazione e di conseguenza politica. L’attività critica dell’intellettuale architetto è perciò anche un’attività politica.

L’attività critica dell’artista intellettuale non è necessariamente anche un’attività politica. 

Nel video Rubber Pencil Devil di Alex Da Corte, presentato alla 58a Esposizione Internazionale d’Arte, forme e colori dell’arte moderna e contemporanea si mescolano a sketch televisivi, pupazzi, disegni animati, pubblicità e musical. L’artista mette in scena con ironia cinquantasette momenti tratti dalla storia culturale americana del XX e XXI secolo, dimostrando come l’incontro fra cultura alta e bassa nella società di massa abbia modificato il concetto di patrimonio culturale. Nel video dell’artista c’è un aspetto carnevalesco, ironico, critico e provocatorio. C’è anche la con-fusione che caratterizza la 58a Biennale (“fricassea” la definisce Roberto D’Agostino che ho avuto per un po’ al fianco durante la visita alla mostra), una con-fusione che mostra interessanti punti di contatto con le Indisposizioni Artistiche. Le Indisposizioni, insieme ad altre manifestazioni, diedero sfogo alle crisi identitarie post-unitarie risorgimentali con reazioni eterogenee, disorganiche, temporanee e non sempre collegate alla politica, come in effetti lo sono quelle dell’attuale crisi post-unitaria europea. 

L’invenzione del Rabadan, il carnevale milanese poi sostituito dall’Effemeride con carri allegorici, diede spunto a una serie di esposizioni umoristiche, fra le quali la memorabile Indisposizione delle Belle Arti organizzata nel 1881 a Milano dalla Famiglia Artistica, che ebbe luogo durante l’Esposizione Nazionale dell’Industria e delle Belle Arti, in aperta polemica. Dopo quella milanese del 1881, le Indisposizioni si diffusero a Mantova e a Modena nel 1882, poi a Venezia e a Borgosesia nel 1887, a Novara nel 1888, ancora a Mantova nel 1890 e ad Alessandria nel 1892, a Nervi nel 1901 e a Borgomanero nel 1904. All’aspetto anti-accademico si unisce quello carnevalesco, ironico, critico e provocatorio attraverso il quale gli scapigliati espressero la loro delusione post-unitaria, la loro insofferenza nei confronti dell’Italia “dei bottegai”.

Nonostante il fatto che le Indisposizioni di Belle Arti in Italia, le Art Zwanze in Belgio, le Arts Incohérents in Francia, le Society of American Fakirs negli Stati Uniti aprirono la strada alle sperimentazioni delle Avanguardie con la ripresentazione dell’oggetto comune assunto come opera d’arte, con l’interferenza della parola scritta che modifica il significato dell’opera o la sostituisce del tutto, con la proposta di inedite forme di ascolto musicale, non c’è ancora uno studio approfondito che metta in luce ciò che hanno inaugurato in campo artistico con la loro risposta critica ai problemi posti da una crisi identitaria.

Guardando la 58a Biennale attraverso le Indisposizioni, sollevando cioè quella “memoria nell’attualità” di cui parla Georges Didi-Huberman nella conversazione con Frédéric Lambert e François Niney pubblicata in La forza delle immagini (Franco Angeli, Milano 2015), è possibile riflettere sulle crisi post-unitarie in corso e sul loro rapporto con le pratiche artistiche mettendo in discussione il modello crociano, che tende unificare azione critica dell’intellettuale (artista) e attività politica.


HEIDI A HORROR PARK

Nabuqi, Do real things happen in moments of rationality?

di ERMANNO CRITINI

 

 

Do real things happen in moments of rationality? Lo scenario è il paesaggio digitale. La giostra di Nabuqi percorre lo sfrangiamento dei confini tra vero e falso, e nell’iperbole della frana di riferimenti certi, il suo ronzio assume i tratti assordanti dell’apocalisse, anche se scipito. Heidi è approdata a Horror Park forse senza neppure saperlo. Da questo punto di vista il lavoro di Nabuqi ben incarna lo spirito di questa Biennale tutta protesa a percorrere la babele mediatica che caratterizza l’immaginario della catastrofe contemporanea accontentandosi di camminare sulla sua pelle. Un mondo fatto di grida afone dove termini come razionalità e realtà si estinguono nello spessore non spessore di un virtuale in cui c’è spazio solo per il verosimile. È l’epilogo della società della spettacolo di cui tanto tempo fa parlava Debord.

Ha fatto molta strada la mucca Milka: passando attraverso le Cow warholiane ha accompagnato la crisi del sogno modernista fin dentro il trionfo apologetico del consumo per precipitare poi nello schianto della povertà diffusa, povertà di “mondi” prima ancora che di economia.

È come se l’animale in vetroresina di Nabuqi, salito sui binari dei Fratelli Lumière non si rendesse conto che questa volta il convoglio è arrivato al capolinea e il capolinea è l’apocalisse perché il sogno si è trasformato in incubo. C’è davvero d’aver paura quando gli uomini de “La Ciotat” vivono ora solo di selfie: il sapore dolciastro della giostra potrebbe rivelare il retrogusto allucinato di un “latte” che la finzione rende amaro. 

Massimiliano Valerii nel suo La notte di un’epoca parla a proposito dell’oggi di un’“antropologia dell’insicurezza” quale prodotto della frantumazione dei palinsesti di senso collettivo a favore della celebrazione dell’io digitale. Detto altrimenti, la culla dell’inconoscibilità e della paura è la crisi delle grandi narrazioni in cui potersi riconoscersi. Una condizione questa a cui far fronte con una riaffermazione delle passioni, ovvero della filosofia.

Dunque: Do real things happen in moments of rationality? Difficile quando crollano i “mondi”. Eppure May You Live In Interesting Times, solo perché, comunque sia, e forse nonostante Nabuqi e questa Biennale, le crepe possono rivelare la polvere di nuovi mondi, ma a condizione che si torni ad esprimere la capacità di tessere i fili del senso, che poi è la capacità di narrare e di disegnare nuovi paradigmi.

 


L'INAFFERRABILE E L'ESSENZIALE 

Lara Favaretto, Thinking Head

di DAVIDE DAL SASSO

 

Avvicinarsi all’arte, intuirne l’essenza, non limitandola alle sue possibili trasposizioni materiali. Una meta ambita tanto sul piano teorico quanto su quelli produttivo e ricettivo. Tale possibilità intuitiva si fa tutt’uno con i problemi della forma, le disposizioni dell’arte nelle sue opere. Trovando origine in una necessità interiore, la forma è condizione di possibilità per l’espressione di un contenuto, sosteneva Kandinskij. Può perdere la propria ragione d’essere se cristallizzata nella sua ‘funzione isolante’, scriveva Kantor. Innominata, poiché poco rilevante, se l’arte giunge alla sua dematerializzazione, si evince da Lippard e Chandler.

La riflessione sull’arte si configura in rapporto alle sue possibili forme. Ma non è solo ad esse – alle disposizioni e agli aspetti esteriori, alle parvenze che rendono possibili – che la si può identificare. E questo non perché si sia raggiunta l’immaterialità. Quest’ultima è piuttosto un obiettivo che rivela nuovamente sia il profondo legame con la forma sia il presupposto, di ispirazione romantica, di avvicinarsi il più possibile all’essenza dell’arte. Un tentativo di allontanamento dalla concretezza che mira a facilitare quello sforzo intuitivo: senza materiali l’essenza è liberata, disponibile per essere colta. A ben vedere, però, non è così che vanno le cose: anche quando l’artista lavora con l’essenziale, qualcosa c’è comunque. Un minimo materiale, cruciale per l’espressione della operosità umana.

Thinking Head, il progetto dell’artista Lara Favaretto attuato e sviluppato per la cinquantottesima edizione della Biennale di Venezia, conferma questa impostazione. Vale a dire quella che mostra come l’arte, ben prima di essere mera elaborazione di artifici, sia presenza relazione e riflessione. Pensiero in movimento che si rigenera mediante i diversi livelli dell’opera: materiale e concettuale, concreto e relazionale, oggettuale e discorsivo. Dall’opera di Favaretto prendono forma numerose riflessioni su temi diversi: l’amnesia, lo humor, la realtà; la casualità, le rovine… E l’arte si manifesta nei termini del fare, della operosità umana, e in quelli delle osservazioni delle domande e dei discorsi che essa attiva e rigenera. Conservando comunque la sua sfuggevole natura metafisica. Una poetica dell’inafferrabile caratterizza la raffinata opera di Favaretto, espressione della variabilità e del contatto con una materia che può anche essere aerea, nebulosa. Essenziale. Nella nebbia qualcosa si scorge. Ci raccapezziamo benché vi sia comunque altro. Dell’arte qualcosa lo sappiamo, ma molto è ancora da scoprire. Esattamente come accade intorno al Padiglione Centrale dei Giardini della Biennale. Ci si muove continuando a fare scoperte.

 


L'OMBRA DELL'AEREO

Open Group, The shadow of Dream cast upon Giardini della Biennale

di HANNES EGGER

 

Il padiglione ucraino è decisamente poco visibile, relegato al secondo piano della Sala d’Armi dell’Arsenale. Un peccato, visto che si tratta di un contributo di alto livello concettuale. Nella stanza ci sono alcuni tavolini, una descrizione del progetto affissa al muro e contenente anche l’elenco degli artisti partecipanti, e un videoproiettore che proietta un filmato su una parete posta in mezzo alla sala. Il concetto di The Shadow of Dream cast upon Giardini della Biennale del collettivo di curatori Open Group (Yurii Biley, Pavlo Kovach, Stanislav Turina, Anton Varga) è definito in modo chiaro: l’Antonov An-225 Mrija, il più grande aereo del mondo, costruito in epoca sovietica, sorvola Venezia il 9 maggio 2019 alle ore 12 e proietta la sua ombra sulla Biennale. Nella stiva dell’aeromobile trova posto l’elenco digitale di tutti gli artisti ucraini viventi.

Il fatto che l’aereo abbia effettivamente sorvolato Venezia non si è potuto verificare, poiché quel giorno le nuvole hanno impedito la vista del cielo sopra la laguna. Ciò che sicuramente hanno preso il volo sono stati i sogni (mrija significa sogno) dei 1143 artisti partecipanti. Nel padiglione stesso, a uno dei tavoli si trova una persona che parla a quattrocchi con i visitatori del volo o dell’aereo; a un altro tavolo, una ragazza spiega il contenuto di questo contributo artistico. In un’altra postazione, un signore con la barba racconta di un artista che, grazie alle sue conoscenze politiche nell’ambito della cultura, era certo di mettere la propria firma sul padiglione ucraino. Tuttavia, nonostante le conoscenze di questo artista, il team incaricato della selezione al suo concetto ha preferito quello di Open Group. Altri aspetti del progetto sono trattati negli altri tavoli.

Tutte le narrazioni, vere o false che siano, vengono esposte oralmente e instillate nel cervello degli ascoltatori dai vari oratori, che fissano i visitatori direttamente negli occhi. Un eccezionale mix di contatto umano diretto e sognanti immagini ad alta quota, esposto attraverso la presenza fisica e in assenza del contenuto reale: né l’aereo né gli artisti stessi, infatti, si trovano sul posto.


ANCORA DUE MINUTI E VADO 

Jon Rafman, Xanax Girl (Dream Journal)

di JOYKIX

 

Umide sirene ululano ritmi multitonali. L’Arsenale è però asciutto dentro. Tra poche ore si spegne tutto. Tutti fuori. Si archivia. Mi avevate annunciato una cosa così così, anzi più così che così. Ma l’allestimento non mi dispiace, anzi. Mi ordina e semplifica il tutto. Niente stranezze, niente arditezze, niente sperimentalismi. Calde e asciutte pannellature di legno. Alte. Quadri appesi. Pochi. Ordinati. Un po’ di roba sparsa in giro. Poca. Ordinata. Cartelli leggibili. Chiari. Brevi. Chi è. Cosa fa. Perché. Vago tra così così, rilassato e asciutto, a velocità costante, senza intoppi. Qualche video, non più di scarsi secondi dedicati, al limite qualche minuto. Un altro video. Un altro ancora. Ma qui mi intoppo. Questo tira dentro. Di brutto. Le avventure di Xanax Girl nell’apoteosi dell’algoritmo. Ok qualche minuto posso dedicarglielo. Yeah si libera anche una poltrona vibrante. Ancora due minuti e vado. Un videogioco senza stress da gioco. Avatar surrealisti in brodo di inconscio multilivello. Volti che escono dal culo. Innesti perturbanti? Mi diverto un casino. Ancora due minuti e vado. Xanax Girl cerca il suo tipo, un tipo piuttosto mutante parrebbe inafferrabile. Si susseguono deliri in google paesaggi. Macabri violenti horror e super poetici. Poesia alienata ma pur sempre poesia. Schizofrenia à gogo. Innesti carne-cose. Carne-prodotti. Merci perse nella rete. Loghi alla cazzo. Punkissimo. Ancora due minuti e vado. Ha un’estetica tra l’allora e l’ora. Slitta di qua e di là. Aaahhhh ora scivola tutto. Collasso. Vortice. Come uno sciacquone. Altro livello. Altro panorama. Un minestrone in Corporate branding. Che gioco è? La Seconda Vita ha conquistato posizioni. Ranking alto direi. Trovato il tipo. Pare piuttosto mutato e piuttosto incazzato. Ancora due minuti e vado. Piove un casino dentro. E anche fuori. La storia ora collassa. Interseca un altro dove. Magma. Forse anche un altro quando. L’orizzonte si ribalta. Si moltiplica in un assurdo labirinto. Questo sì labirintico. Non come quello dopo. Dov’è finito il tipo? Cos’è diventato? Come lo riconosco? Ancora due minuti e vado. Xanax Girl è tostissima. Combatte e slitta. Cerca cerca cerca. Che sbatta. Il tutto all’apparenza non sembra molto concettuale ma in “realtà” c’è dentro tanto. Concentrato. Un frullatore. Corpi e merci. Simboli e feticci. Relitti e protesi. La storia implode ed esplode continuamente. Seduzione e orrore. Scommetto che anche a Dante sarebbe piaciuto un casino. 

Ancora due minuti e vado.


MOVIMENTO CON BRUSIO

George Baselitz, Baselitz-Academy

di MARIATERESA SARTORI

 

Percepiamo solo confusamente il soggetto capovolto, due persone sedute, una figura di profilo, un uomo in piedi. Prevale infatti un’altra modalità percettiva, quella ritmico visuale che non dà un nome alle cose, che non le spinge dentro categorie linguistiche. Sentiamo in particolare modo la forza propulsiva e la direzione del gesto pittorico: tutto diviene movimento, spinta dinamica in molteplici direzioni, pura forza visiva simultanea che vive nel presente, nel qui e ora, e che genera rumore sotterraneo. 

Mettiamoci a testa in giù per raddrizzare il quadro. Improvvisamente l’immagine si placa. Quello che prima era brusio movimentato inaspettatamente si ferma e tace. La modalità percettiva da ritmico visiva diventa linguistica. Il soggetto non è più fuso con lo sfondo, i suoi contorni si stagliano netti, si protendono in avanti, si staccano dal fondo rendendo il soggetto inequivocabilmente soggetto con un proprio specifico peso. Contemporaneamente ciò che sta intorno arretra, diventando inequivocabilmente sfondo, sta calmo dietro, come sfondo, muto. Il soggetto può quindi acquisire una propria identità e rientrare docile in categorie linguistiche che ci dicono chiaramente chi è e cosa è; improvvisamente le linee di forza che prima avvertivamo in tutta la loro dinamica spaziale, trovano il loro peso ed equilibrio e si arrestano. Arrestandosi anche il brusio si spegne e cala una specie di silenzio. Usciamo dalla percezione simultanea al di là del linguaggio e del tempo che ci àncora a un eterno momento presente ed entriamo nella modalità simbolico-linguistica che ci àncora alle esperienze passate che forniscono i preconcetti in cui far confluire le cose, dandogli un nome, conferendo peso gerarchico. 

Dalla stasi silenziosa dei preconcetti al vivo movimento con brusio.


VOCI LONTANE 

Cathy Wilkes, solo Exhibition, British Pavilion

di LUCA SCARABELLI

 

L’artista Cathy Wilkes con il suo immaginario imperturbabile sembra catapultarci in un mondo semitrasparente in cui l’esistenza umana è velata di malinconia, ancorata a un tempo fantasmatico, quasi evanescente, in cui il senso della famiglia e la famigliarità è quello di un ricordo alterato, increspato. Davanti ai suoi lavori penso ad una favola senza lieto fine e anche senza scomodare l’unheimlich o il disconoscimento, associo il senso della sua ricerca a valenze decisamente psicologiche.

Wilkes predispone delle installazioni con oggetti comuni, piccoli manufatti accostati tra loro quasi con gentilezza e premura, creature antropomorfe gravide e silenziose che se ne stanno lì come se nulla fosse, elementi naturali, ma anche “luoghi” dove filtra ben poca luce, metafore di dimore abitate da personaggi chiusi in se stessi, personalità anonime dalla sensibilità sopita di cui non si percepisce il respiro. Sono articolate composizioni la cui disposizione non rinuncia al buon risultato formale, a un certo equilibrio e pulizia, a una collocazione delle cose nello spazio misurata e precisa, ma facendo intendere con questa strana (in)quiete, la traccia nascosta di un sentire problematico, in cui compare sommesso il dramma del quotidiano, il difficile intreccio dei rapporti interpersonali, le cose che parlano di noi, dei nostri segreti, cose che sussurrano qualcosa… 

Le figure (emanazioni di spiriti?) hanno corpi esili e sottili e lo sguardo fisso e ipnotico, ascoltano con le grandi orecchie belle aperte, non fanno gesti: presentano così la profondità enigmatica del loro essere. Nell’insieme c’è un rimando inconscio ad atmosfere ovattate, in cui oggetti, figure e cose, sedimentate e appena sfiorate dal tempo polveroso che passa lento, concorrono a evocare o a essere loro stesse emanazione della caducità e del mistero. Non credo alla felicità osservando le sue opere, ma come sempre fa l’arte nei momenti migliori, al dubbio, all’incertezza del vivere, alle domande, ai problemi quotidiani che destabilizzano la giornata; penso piuttosto alla fatica dello stare al mondo, allo spazio che ci separa pur nella vicinanza, al senso di una mancanza continua dell’altro, alla solitudine, alla distanza, alla separtizione, come scrive Lacan. 

Fare esperienza dell’opera di Wilkes è considerare le cose come dimore silenziose che ospitano storie ipnotiche, allucinanti e misteriose. La sensazione è quella di prendere qualcuno per mano e sentire il contatto con un fantasma, il suo malinconico soffio. La sua “scultura” è alla fine un’immagine, i lavori di Wilkes sono “atti” dove tutto è sospeso, come in una fotografia ancora in fase di sviluppo, immagini latenti che si intuisce che non si riuscirà poi a bloccare definitivamente. Sculture-oggetti-cose costituiti da atti sociali (vedi il pensiero di John R. Searle in La costruzione della realtà sociale) in un mondo folkloristico. Le cose che ci troviamo intorno ci dicono in qualche modo che noi, osservatori, curiosi, guardoni, siamo neutrali, distaccati e non possiamo fare nulla per cambiare le cose. La sua messa in scena è quella di minime azioni di una solidarietà sorda, minuta, da cui traspare il senso dell’affetto sopito, quasi sospeso. È il teatro della malinconia e del silenzio, i cui attori sono fini figure mute o almeno figure dalla voce molto debole. Ricordo una bambina con un cappellino bianco, giusto di fianco a me, in visita con la sua mamma alla mostra, che ancora sull’uscio del padiglione britannico dice che “ci sono delle statue che non stanno facendo niente”. In effetti con loro non si parte e non si arriva da nessuna parte, si sta lì muti anche noi a guardarle aspettando che succeda qualcosa. Ora mi ricordo anche di una persona a me cara, intimorita dal simulacro, che avevo preso per mano qualche tempo fa, giusto per accompagnarla ad attraversare una selva di statue immobili come queste. Ma questa è un’altra storia, un’altra mostra, un’altra vita. Intanto una piantina sola si fa ombra e fiori secchi e vasellame e voci lontane e la luce su Venezia che cambia. 


VISIONI SOTTOSOPRA

Liliana Moro, Capovolto

di BIANCA TREVISAN

 

Strabismi; ho subito pensato al significato del titolo della rivista: una deviazione della visione consueta, che comporta una sfocatura nella percezione, ma anche una focalizzazione più intensa, su un unico oggetto, fino allo sdoppiamento. La messa a fuoco è al principio del funzionamento dell’occhio umano e la ricerca sui dispositivi di visione tecnologici si è concentrata sin dagli albori sulla replicazione di questo meccanismo, dando vita a un “gioco con il fuoco” che ha spesso sollevato questioni e interrogativi poi alla base della visual culture contemporanea. Come funziona il nostro sguardo? E come influisce la modificazione del suo meccanismo all’interno della nostra percezione?

Con queste riflessioni in mente, l’opera di Liliana Moro, Capovolto (2015-2019), presentata al Padiglione Italia della Biennale di Venezia di quest’anno, ha subito richiamato la mia attenzione. Vediamo un lampione a testa in giù, posto sottosopra: una sfera luminosa sormontata da un lungo stelo di ferro.  Ciò che è evidente anche allo spettatore meno attento è che non solo è ribaltata la collocazione abituale del lampione, ma la sua funzione: non illumina null’altro se non la terra, con un raggio limitato. Questo lampione-non-più-lampione è un oggetto che pesca a piene mani dalla tradizione duchampiana: come non pensare all’orinatoio posto a testa in giù alla mostra della Society of Independent Artists a New York, nel 1917 ? Sono passati cent’anni da quel momento rivoluzionario per il linguaggio artistico e il ready-made continua ad essere alla base di tante sperimentazioni contemporanee. Oggi come allora, per non relegare l’operazione dell’artista a mero gesto, è necessario guardare al contesto che l’accompagna. Tutta la poetica di Moro è disseminata da riferimenti alla sua biografia, senza scendere nel personalismo o nell’intimismo. Racconta il suo vissuto, o meglio la sua postura nel mondo, tramite i suoi oggetti: non a caso si definisce una scultrice, non disegna quasi mai, le sue visioni hanno sin dal principio una dimensione plastica e si sviluppano nello spazio. Proveniente dalla scuola di Luciano Fabro (si è diplomata all’Accademia di Brera nel 1989) e protagonista di quel momento estremamente fecondo per l’arte milanese che è stato lo spazio di via Lazzaro Palazzi all’inizio degli anni Novanta, ha un atteggiamento verso l’opera e il suo pubblico ben preciso: all’interlocutore chiede sempre, infatti, un cambio di prospettiva, uno slittamento dello sguardo ordinario di cui Capovolto pare essere l’estrema sintesi. 

Moro racconta di essere rimasta segnata, durante la sua formazione, dalla lettura di Samuel Beckett, dalla sua narrazione di un quotidiano assurdo, parossistico e straniante: i personaggi del drammaturgo sono inciampati, caduti senza la forza o i mezzi per rialzarsi (Nessuno è un’opera del 1993 che si ricollega chiaramente al pensiero del “nessuno” di Beckett, così come Endgame è il titolo della mostra alla Galleria Emi Fontana nel 2009). Capovolto si riferisce proprio a questo “inciampo della vita”, riprendendo le parole dell’artista: chiedendo al pubblico un atteggiamento di modifica del proprio sguardo lo conduce in una narrazione capovolta, al contrario, dove la luce illumina la terra sulla quale possiamo cadere senza rialzarci. D’altra parte, però – ed ecco il ribaltamento di visione – sulla terra poggiano i nostri piedi, su di essa nasce e muore il nostro percorso: le situazioni problematiche sono anche estremamente reali perché ci mettono di fronte alla verità della nostra vita. 

Moro mette in atto un abbassamento, che poi è anche il titolo di un’installazione del 1992 pensata proprio per lo spazio di Lazzaro Palazzi, dove un migliaio di bamboline di carta si contrappongono ad architetture in miniatura: si tratta di una richiesta di “sguardo verso il basso”, determinando un comportamento nello spettatore che è invitato a chinarsi per vedere da vicino. Ma anche nelle sue diverse rappresentazioni di cani, con i quali ha un rapporto di profonda empatia, mette in campo un altro sguardo, quello di un’altra specie animale, uno sguardo dal basso, ancora una volta, che in fin dei conti determina semplicemente un cambio di prospettiva. Questo atteggiamento di Moro parte anche dal rifiuto di accettare la dicotomia sociale tra vincenti e perdenti (Underdog, che dà il titolo alle sue sculture canine del 2005, significa proprio ‘perdente’), nella direzione di una rivalutazione di chi prende strade alternative, al di fuori della logica dell’ascesa e della caduta, del successo e del fallimento. 

Tornando all’opera in Biennale, il lampione era già stato presentato in altre occasioni, come per la sesta edizione di Arte in Memoria, nel 2011, presso la Sinagoga di Ostia Antica, presentando il suo lavoro con queste parole: “un palo di tubi innocenti alla cui sommità, a cinque metri di altezza, un globo in polietilene […] emette luce gialla continua, di giorno e di notte”. Nel catalogo poi Moro cita Leonardo Da Vinci: “Non si volge chi a stella è fisso”, indicando un atteggiamento visionario e determinato, rivolto sempre verso un obiettivo ulteriore. Qui la luce sottolinea la centralità, anche storica, del luogo, il palo è oltremodo esasperato nella sua verticalità per tendere la fonte luminosa verso le stelle, verso l’ulteriorità. Nel 2015 (ri)vediamo alla Galleria Pantaleone di Palermo il lampione, questa volta ribaltato. La curatrice Agata Polizzi, nel testo introduttivo, indica la sua luce come “una luce non eclatante, che nella sua semplicità, indica una possibile via”. Si tratta di due atteggiamenti diametralmente opposti, ma entrambi richiedono un cambiamento nel proprio approccio alla visione, all’ascolto dell’opera. 

Così come la messa a fuoco esasperata o la visione periferica involontaria aprono a nuove possibilità percettive, strabiche, non ordinarie, e proprio per questo rivoluzionarie, allo stesso modo il capovolgimento dell’opera implica un cambiamento significativo nella postura dello spettatore. Capovolto ci dimostra, con la sua luce terrena, che è possibile percorrere narrazioni dal basso, sottosopra, traballanti e instabili, ma profondamente umane.